Liceo Statale 'Cagnazzi', Altamura
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Tema dell’anno: Antigone

ANTIGONE O DELLA COSCIENZA

Nella tragedia classica il mito di Antigone assume una dimensione etico-religiosa. In un universo come la polis, in cui religione e politica costituivano un’unità indifferenziata, la coscienza del singolo, con gli obblighi imposti dal culto familiare dei defunti, si trova per la prima volta nella storia in conflitto con le decisioni dell’autorità politica.

Questi gli antefatti della vicenda. Dopo che le circostanze della sua nascita, dell’uccisione di Laio e delle nozze con Giocasta erano venute tragicamente alla luce, Edipo aveva maledetto i suoi due figli maschi, poiché gli avevano mancato di rispetto e aveva augurato loro di contendersi con la spada l’eredità del regno. Alla sua morte i due fratelli strinsero un accordo: Eteocle avrebbe regnato per un anno e l’anno seguente avrebbe ceduto il Trono a Polinice. Ma dopo un anno Eteocle si rifiutò di onorare il patto. Polinice andò esule ad Argo, sposò Argia, figlia di Adrasto, re della città e convinse il suocero e altri cinque sovrani ad accompagnarlo a Tebe per rivendicare il suo trono. Fu quella la spedizione dei Sette contro Tebe, dramma che faceva parte di una trilogia eschilea.

In quest’ultima tragedia, rappresentata nel 467 a.C., i sette campioni attaccarono le mura di Tebe, Eteocle e Polinice si scontrarono in duello e si uccisero reciprocamente, mentre il trono di Tebe toccò a Creonte, fratello di Giocasta. A questi toccò il compito di pacificare la città e imporvi la disciplina: Creonte decretò che ad Eteocle, che era caduto combattendo per la patria, toccassero gli onori che spettano a un eroe; Polinice invece, come traditore, sarebbe rimasto insepolto, preda dei cani e degli uccelli. A questo punto della vicenda inizia l’argomento della tragedia che Sofocle presentò alle Grandi Dionisie del 442 a.C.

La tragedia è a carattere familiare e politico, come molte delle tragedie del V secolo, attente alle tensioni e alle implicazioni tra le due sfere: γένος e πόλις.

Dopo il divieto di Creonte di seppellire Polinice, Antigone annuncia alla sorelle Ismene il decreto di Creonte e la informa che non lascerà insepolto Polinice. Ismene resta sgomenta e obietta che a due deboli donne non si addice di mettersi contro le decisioni di chi detiene il potere. Antigone ribadisce la sua decisione. Dopo la parodo si presenta in scena Creonte e proclama il suo decreto, giustificandolo con la necessità che qualsiasi atto sia messo a servizio dello stato. Chi lo violerà, sconterà la sua disobbedienza con la morte. Giunge una guardia, per annunciare al re che qualcuno, approfittando di un attimo di distrazione sua e dei suoi compagni, ha ricoperto di polvere il cadavere di Polinice.

Il re ordina che la polvere sia spazzata via e ripete le sue terribili minacce, giungendo a un’esplosione incontrollata di ira, quando il Coro si chiede se per caso la misteriosa sepoltura non sia stata opera degli dei. Segue il primo stasimo, che esalta la natura straordinaria dell’uomo: questi è creatore  di una civiltà meravigliosa e signore della natura, ma non deve mai ignorare la volontà degli dei, per non produrre rovina a se stesso e alla comunità in cui vive. Al termine del canto si ripresenta la stessa guardia, accompagnando Antigone che è stata sorpresa a rinnovare il rito della sepoltura. Nel confronto tra il sovrano e la principessa, questa riafferma con decisione la propria scelta di obbedire alle leggi non scritte degli dei, in confronto alle quali i decreti reali non hanno alcun senso né alcun valore: ella preferisce piacere ai morti piuttosto che ai vivi. Creonte decide che ella muoia, sepolta viva in una tomba.

Il contrasto tra Antigone e Creonte si configura dunque come un conflitto tra famiglia e Stato, tra diritto religioso e diritto civile: ma per Sofocle, come si enuncia nel primo stasimo, le leggi della polis non hanno alcun valore se non sono conformi a quelle degli dei.

Dopo una breve scena tra Creonte e Ismene, entra Emone, figlio del re e fidanzato di Antigone, che contesta la decisione  del padre, facendogli presente che le simpatie dei cittadini sono tutte per lei: se fosse messa a morte Creonte si attirerebbe la riprovazione generale. Ma il re crede che Emone sia mosso solo dalla passione, e conferma ostinatamente la sua decisione.

Antigone viene condotta alla tomba dove sarà murata viva; entra in scena l’indovino Tiresia per avvertire Creonte che i sacrifici danno presagi sfavorevoli: gli dei sono contrari alle sue decisioni. Creonte non esita ad inveire contro l’indovino, accusandolo di essersi fatto corrompere: Tiresia minaccia per lui un terribile castigo. Creonte a questo punto è smarrito: ordina di seppellire Polinice e si precipita per far liberare Antigone dalla sua prigione-tomba.

Un messaggero riferisce al Coro e alla regina Euridice che Creonte, forzata la chiusura della sepoltura di Antigone, ha trovato il figlio gettato sul cadavere di lei che si è impiccata. Emone si è lanciato contro di lui con la spada in mano, lo ha mancato e l’ha rivolta contro di sé, uccidendosi. Creonte porta con sé il cadavere di Emone, ma gli viene annunciato che anche Euridice si è impiccata. La tragedia si conclude con un lamento intonato da Creonte e dal Coro.

Questo dramma è specchio della polis ateniese. Nella polis si affrontano, già a partire dall’età arcaica, gruppi antitetici e il fenomeno si acuisce nella polis democratica, dove i partiti sono separati da interessi economici e politici: conservatori contro democratici radicali, proprietari terrieri contro artigiani e commercianti. In una realtà sociale e politica di questo tipo la decisione risulta necessariamente dallo scontro di punti di vista contrastanti e rivela agli occhi dei Greci una realtà molto più complessa di quella che era rappresentata nella tradizione sapienziale arcaica.

La consapevolezza di questa dialettica si rivela nella speculazione di Eraclito, che rappresenta il divenire della realtà nell’opposizione dei contrari, e con maggiore evidenza nella sofistica, che con i δισσοί λόγοι, i discorsi che si contrappongono con uguale validità, elaborano una concezione della verità non più assoluta ma pragmatica, motivata dalla necessità di scegliere una linea operativa in presenza di posizioni non conciliabili. Come Murray ha individuato, Eschilo costituisce la categoria ideale del tragico: il momento in cui un imperativo morale, giusto e garantito dagli dei, si scontra con un altro imperativo altrettanto sacro, il νόμος della città. Se nella tragedia di Eschilo l’elemento fondamentale è la tensione etico-religiosa, delineata da una teologia rigorosamente razionale, in cui il poeta rappresenta al suo pubblico il mondo divino diviso, ma alla fine ricomposto in un’unità armoniosa e giusta di cui Zeus è garante, nella tragedia di Sofocle troviamo esempi di eroi che vanno incontro ad una vicenda dolorosa e terribile in seguito ad una loro colpa, e di eroi che sono perseguitati dagli dei senza che si siano resi colpevoli. Questa realtà politica, dove ius e lex si contrappongono, è ben rappresentata dalla tragedia sofoclea.

La tragedia Antigone è caratterizzata da due parole, neologismi eschilei: αυτάδελφος e ομοσπλαγχνός. La prima parola ( sorella mia propria) marca il primo verso della tragedia, che designa il rapporto che lega Antigone alla sorella e nello stesso tempo annuncia il tema della solidarietà col fratello morto alla quale ella invita Ismene e per la quale ella sta per sacrificarsi.

Quanto a “ομοσπλαγχνός” propriamente significa “ nato dalle stesse viscere” e indica tutti i fratelli uterini.

Già Eschilo nei Sette a Tebe lo impiegò ( v- 899) per qualificare i due figli di Giocasta, Eteocle e Polinice, usciti dal ventre che aveva dato alla luce il loro stesso padre, Edipo. In Antigone al v. 511 l’eroina proclama davanti a Creonte che “ non c’è nulla di vergognoso ad onorare coloro che sono nati dalle nostre stesse viscere”.

Quindi entrambi i termini si riferiscono alla consanguineità incestuosa dei figli di Edipo e da un lato all’atrocità dell’odio che contrappone Eteocle e Polinice fino al fratricidio reciproco, dall’altro alla sublime devozione amorosa di Antigone verso il fratello. In una cultura maschile, la continuità del γένος e il complesso dei valori che vi si rapportano restano dunque nel ventre della donna che è destinato a custodire, proteggere, assicurare la continuità della stirpe, esattamente come la custodia della casa. Gli άγραφοι νόμοι di cui Antigone, una donna, è la custode, sono così radicati nei ventri delle donne che li proteggeranno dalle minacce. L’esterno invece è la sfera dei maschi, la polis di cui Creonte pretende di essere il custode. Questo è l’essenziale, dice Cacciari, “ comprendere l’inseparabilità dei Due, Antigone e Creonte, e dare alla voce di entrambi tutta la sua potenza “omicida”. Assolutamente necessari l’una all’altro, metafisicamente estranei a ogni odio personale, inarrestabili nel “ rendersi morte”, essi, incarnano così l’essenza del dialogo tragico”.

A. Cornacchia